“Si sieda qui, avanti, non faccia troppi complimenti con me! Non mi piacciono i complimenti sa? Croste caratteriali attecchite su sedimentazioni di atteggiamenti ipocriti, perpetuati per anni ed anni, ecco cosa sono i complimenti!
Dovremmo tutti tornare allo slancio istintivo di epoche più sagge e antiche, dove, per citare un filosofo nazareno, il sì era sì e il no era no, e tutto il resto era del diavolo. Ovvero, tutto quello che rimane per definire una conversazione appena appena interessante. Ma sto divagando, ed abbiamo appena iniziato.”
…
“Mi voleva chiedere delle Ninfe, quindi… Ma scusi, non posso fare a meno di notare che sta fissando il mio cappello. Le da fastidio? No, certo che no, eppure il suo modo di guardare mi disturba, glielo devo proprio dire. No, la prego, non si scusi, lei non ne ha molta colpa, non più di una scimmia che segue stolidamente il suo istinto di fare smorfie ai visitatori dello zoo.
Esistono radicate resistenze sociali all’uso del cappello, sa? Per alcuni è un insindacabile segno di un passaggio ad un età matura, e di tutto quello che di conseguenza ne comporta, e ovviamente parliamo nello specifico della perdita della forza virile, perché di cosa altro ci possiamo preoccupare noi maschietti?
Per altri invece è, paradossalmente, un ritorno all’infanzia… anche qui vissuta come una rinuncia alla mascolinità attiva, per tornare alla beata innocenza di un bambino.
Sì, sì, non si scusi, lo sta facendo di continuo! Sono io che dovrei scusarmi, tendo a parlare troppo e a mettermi in cattedra. Deformazione professionale, ed usare la parola deformazione nel mio caso lo trovo un calembour squisito… No, non lo può capire, non si preoccupi.
Sì, ho insegnato antropologia e miti antichi. Sì, sono ancora piuttosto giovane, lo so. Non quanto lei, ragazzo, sapesse quanto la invidio, può viversi al meglio la nuova entusiasmante epoca che ci aspetta. Certo che mi entusiasma! Provo lo stesso entusiasmo di un geologo che abbia la possibilità di farsi una passeggiatina in una palude del Paleozoico, con tanto di trilobiti che gli sguazzano tra i piedi.
Ma sto parlando troppo e troppo a sproposito. Mi permetta di bere un sorso di questa scura. A lei le piace la Stout? Cosa?! Non beve? Pessima scelta, ragazzo, le consiglio al più presto di raddrizzare questa sua cattiva propensione, per i tempi che ci aspettano non credo le converrà, socialmente parlando.”
…
“Ahh… Birra! L’unico e solo fuoco prometeico che sia degno di tale nome!
Da quando Ceraint l’Ubriacone preparò la sua mistura di mosto, fiori selvatici e miele ed il dio Lug in forma di cinghiale vi lasciò cadere la sua schiuma, sì, proprio la sua bava intendo; ah, da allora quanti calici e coppe e crani e boccali e bottiglie si sono levate in loro onore.
Onore a te, Ceraint figlio di Berwyn il Bollitore! Onore e imperitura gloria!”
…
“E’ vero, ci stanno guardando. Mi scusi, a volte mi lascio un po’ andare, ed una Stout è capace di trasportarmi un po’ troppo oltre, per gli asfittici canoni sociali attualmente vigenti. Ma non tema, torno a ripeterglielo, avremo entro breve un drastico cambiamento a riguardo. Ci scorderemo questi pub ovattati e gli insopportabili ritrovi mondani, per tornare agli antichi bagordi e baccanali e baccarate varie. Si prepari, ragazzo, glielo consiglio vivamente.”
…
“Dunque, le Ninfe. Come ne è venuto in contatto? Oh, ma cosa vedo? Sta arrossendo? Ma questo è meraviglioso! No ragazzo, non si adombri, non la sto prendendo in giro. Al contrario sono ammirato, e posso ben immaginare quanto apprezzamento avrà riscosso questo suo pudore nelle nostre comuni amiche. Oh sì, sto parlando delle Ninfe.
Le Ninfe…
Solo un pensiero idiota e oscurantista come quello moderno e scientifico poteva pensare di razzolare col suo grugno proprio nella mitologia greca, per trasformare un termine già di per sé affascinante come suono, nymphè, in una malattia. Anzi, mi correggo, una presunta malattia. Perché altro non è stata, la cosiddetta ninfomania, che una comoda etichetta data dal maschio alla donna troppo attiva sessualmente e non sottomessa ai suoi eroici e solari voleri, impartiti non certo dal sommo Zeus ma dall’ansia di prestazione del suo manichetto fremente.”
…
“Chi sono le Ninfe, mio caro? Si scandalizza se le dico che non lo so? Oh, si scandalizza veramente, vedo. Eh già, un esimio studioso come me, un rovistatore professionista di libroni e manoscritti, che non sa dare la semplice definizione di una figura mitologica così comune.
Ben presto imparerà, caro amico, che l’apparente semplicità di una definizione nasconde insospettabili abissi. Persegua l’apparente complessità, se vuole vita facile. Per quale motivo crede che dottori e professoroni vari parlino così difficile, se non per mascherare la loro profondissima ignoranza?
Le Ninfe, dee delle Acque Chiare, incarnazioni della Natura, sorta di divinità minori, spose e amanti di Dei e madri di Eroi… è questo che vuole sentirsi dire?
Potrei anche aggiungere, e complice questo oscuro nettare di certo lo farò!, anche abitatrici di luoghi profondi e umidi, salate cavità ctonie, a volte figure temibili a vedersi, capaci di portare alla follia un uomo, spingerlo all’insopprimibile desiderio di compiere impensabili azioni guerresche… o erotiche, fino ad annullarne completamente la personalità.
Che orribile prospettiva vero? Annullare la propria personalità. Azzerare questo coacervo di paure, emozioni cieche, pensieri vuoti, aspettative esterne… questo ammasso di amabili stronzate che chiamiamo personalità. Su quali fragili piedi d’argilla doveva reggersi l’orgoglio di quelle popolazioni di invasori indoeuropei che rovesciarono i templi delle molteplici facce della Dea, se questa è tutta l’eredità che ci hanno lasciato.
Le confido qualcosa, amico mio, sì, si chini in avanti e sfiori con la sua fronte la mia, non si lasci vincere dai sentimenti omofobi che le fanno vedere il contatto tra uomini come vergognoso, perché ciò che ho da dirle non può che essere sussurrato. E non ho mire corporali nei suoi confronti, non tema.”
…
“Le Ninfe ci richiedono di travalicare lo specchietto lercio che chiamiamo personalità, per sputare orgogliosamente sul nostro Ego e lasciarci scagliare nello spazio dell’esistente come la saetta dell’atman delle Upanishad, come le frecce del centauro Chirone.
Per assolvere a questo compito, per servire il loro piacere e immergerci nelle maree chiare del loro amore, all’uomo sono concesse solo due vie. Una è quella dell’Eroe, che abbia il coraggio di tutto ciò, riconoscere se stesso come l’unico vero mostro e combattersi, distruggendosi, armato solamente della cieca fiducia del loro amore, un meraviglioso salto in un buio abisso punteggiato di stelle ardenti.
L’altra, la più semplice, è la via della Bestia. Rinnegare la civiltà e i secoli di tube e mitre e cravatte e baffi a manubrio, per lasciarsi andare alle frescure di ameni boschetti, zufolando dentro flauti di canna e piluccando acini d’uva. E mettendo a disposizione delle Ninfe e delle loro voglie poderose erezioni, naturalmente.
Perché le Ninfe, mio caro ragazzo, mantenevano i Satiri come amanti ordinari, riservando l’amore appassionato agli Dei e gli Eroi.”
…
“Mi sembra di leggere nel suo vacuo sguardo trigliato una specie di catatonia che potrei interpretare come umano smarrimento. Si lasci andare con fiducia a questo nuovo e insperato brivido, amico mio. Si rallegri, sta pensando, finalmente!
I tasselli che a scuola ha scrupolosamente collezionato non ritornano? Gli insegnamenti dei vecchi saggi le sembrano ora un geriatrico sputazzellare al vento?
Ed oso anche dirle, soffiando sulle braci dei suoi dubbi, se tutta la mitologia, mio caro amico, fosse una riscrittura maschile di una storia precedente, umida e oscura e temibile e bellissima come quella stretta caverna che le vedo brillare negli occhi; no, non lo neghi, la cosa è lampante… beh, le Ninfe potrebbero essere ben di più che questa sorta di insipide fatine in cui le hanno trasformate secoli di favolette rassicuranti.
E se anche l’irlandese Jenny Dentiverdi, o la russa Baba Yaga, fossero anch’esse Ninfe? Credo, mio caro ragazzo, che il loro incontro non sarebbe così piacevole come quello con una Nereide o una Amadriade… ma altrettanto necessario, perché Isis è una sola, che la si baci sulla sua guancia nivea o su quella nera come la notte più profonda.
Non capisce? Non è importante, l’intelletto tra poco non ci servirà più. Sta tornando il tempo degli Dei, si attiveranno altri organi di conoscenza, finalmente.”
…
“La mia adorata Ninfa, l’ho conosciuta in un posto come questo, un pub.
Si stupisce? No, non deve. Le ho detto che gran parte delle Ninfe sono divinità delle acque chiare e pure. Quando gli Dei hanno deciso di tornare su questa Terra, e con loro, o forse prima di loro, le bellissime Ninfe, lei pensa che abbiano avuto facilità a trovare sorgenti incontaminate, come al tempo degli Argonauti?
Si saranno messi le mani nei capelli nel vedere il porcile in cui abbiamo trasformato questo mondo, sperando in una nuova impresa del possente Eracle, che rinnovasse la pulitura delle fetide stalle del Re Augia. Vana speranza, perchè stavolta non sarebbe bastato deviare il corso di due fiumi per pulire tutto.
E così, dove trovare acque cristalline e terse, in questo mondo?”
…
“No, non mi sono distratto a giocherellare, e non sono neanche caduto in uno stato di meditazione alcolica. Sto picchiettando sul vetro di questa bottiglietta per mostrargliela. Purissima acqua di sorgente scozzese, importata. La servono assieme al whisky, moderna quanto inconsapevole operazione alchemica di bilanciamento del fuoco con l’acqua, appunto.
La mia Ninfa la incontrai qui, purissima Ninfa che nell’acqua scozzese aveva trovato la sua cristallina magione.
Vuole che le racconti? No, non lo farò.
Preferisco conservare quei preziosi cristalli che sono stati i miei momenti con lei, e che tuttora si susseguono, se pur in altre forme.
Come riuscire a racchiudere in poche parole, per di più ostacolate dall’alcol che sento comincia a ostacolarmi la lingua, il legame dolcissimo in cui mi sentii subito avviluppato?
Come narrare gli abbracci, gli sguardi profondi e i lunghi baci, se non paragonandoli ad una consapevole e progressiva immersione nel Lete della mia stessa anima, che in tutto e per tutto apparteneva a lei?
Eccitandole la stanca morbosità che si illude a chiamar lussuria, potrei descriverle il corpo flessuoso nel fluire dell’amore, i sentieri percorsi sulla sua pelle fino ai suoi sentieri segreti, la rilucente sciarada dello smalto nero dei suoi piedi, non sempre concessi, che mille volte mi sono chinato per baciare.
Tutto ciò, se lo facessi, andrebbe sprecato come gettar preziose perle ai setolosi cortigiani di Circe, no mio caro, non se ne abbia, non mi riferisco solo a lei, ma in generale a chi intenda questa storia con orecchio moderno; a me stesso, per primo.
La mia Ninfa mi introdusse al variegato suo nucleo famigliare: ebbi modo di conoscere di persona le marine Naiadi e Oceanidi, le montane Oreadi, le frondose Aldeidi e Meliadi, le Iadi e le enigmatiche Pleiadi.
Sparse nei vari punti del mondo, stanno riconquistando la terra, avanguardia dei nuovi Dei che tornano, mondati da quell’insopportabile orgoglio che li ha condotti all’oblio. Sembra, ma son pettegolezzi mercuriali, che non sia più il sommo Zeus a guidarli, ma il folle e seducente Dioniso, tornato dalla morte a braccetto con il gran Dio Pan. Oh, ma non parliamo di politica, per favore!
Di fatto, amai la mia Ninfa come mai uomo abbia amato donna, o sembianza d’essa.
Poi, un giorno, mi fu posta la scelta. Ebbi paura del salto, mi attaccai a questo simbionte egoico chiamato personalità… oh beh, in poche parole me la feci sotto dalla prospettiva del cambiamento. E scelsi, suppongo, anche se al momento non avevo una chiara idea di fare una scelta… e dei suoi effetti collaterali.”
...
“Come dice? No, non mi sono addormentato. Stavo solo pensando.
Vuole ancora sapere delle Ninfe? Ma gliel’ho spiegato, caro ragazzo, quante cose vuole che le dica.
Se ne ha conosciuta una, o per meglio dire se una di loro ha scelto lei, allora saprà tutto al momento opportuno, perché nessuna vuota preparazione scolastica, neanche le mie parole, possono prepararla. La invidio e allo stesso tempo la compiango, ragazzo, e si abitui a questo paradosso, perché solo la saggezza di Giano potrà guidarci nella nuova Era dionisiaca del Loro ritorno, mio caro.
Continua a guardare il mio cappello… oh, ma ora lo vedo… non il mio cappello, ma quello che c’è sotto, o per meglio dire quello che le pare di vedere sotto.
Ma le apparenze sono appunto tali, fallaci per loro stessa definizione. Cosa crede di aver veduto? Forse due appuntiti cornetti spuntare dalla mia fronte? Pensa che la mia usanza di portare sempre il cappello sia utile a nascondere qualche bestiale caratteristica fisica?
Suvvia, ragazzo, siamo troppo cresciuti per credere a queste fole. Siamo vecchi e cadenti per dar ascolto ad antiche leggende di metamorfosi, e preferiamo seguire trasformazioni più intime, riconducibili a modelli psicologici scientificamente accettati. Astrazioni, niente più.
Non ci pensi, amico. E, quando mi vedrà scendere dal bancone e dirigermi verso l’uscita, non le venga in mente che questo mio strano claudicare sia dovuto a qualcosa di diverso che una semplice zoppìa, ad esempio ad un paio di zoccoli di capra costretti in moderne scarpe di cuoio… Fantasie, fole! Ma via, come può credere a tutto ciò?
Arrivederci mio caro amico, i miei rispetti, i miei rispetti… Arrivederci…”
lunedì 28 dicembre 2009
domenica 20 dicembre 2009
IL DEMONE SUL DAVANZALE (simpathy for a little devil)
L’altra sera proprio non riuscivo a prendere sonno.
Il vento scuoteva con rabbia le tapparelle e faceva vibrare i vetri, causando un uggiolio acuto, fastidioso come il sordo risveglio di una carie nel mezzo della notte.
Sotto le coperte, mi stavo lasciando cullare da pensieri masochistici, vedendomi senza ragione abbandonare le coltri ed affrontare la strada, urlante e gelida. Nella mia fantasia la strada era un tunnel dove sfrecciavano foglie e cartacce, alberi e cani, e uomini naturalmente, tutti accomunati nell’impotenza di fronte all’infantile crudeltà del mostruoso fenomeno atmosferico.
Qualcosa, ad un certo punto, mi riscosse dalla rassicurante inutilità delle mie visioni.
La vibrazione sembrava essersi alzata di un’ottava, e s’era fatta stridente, quasi al di là della soglia dell’udibile.
C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quel suono: la notizia terribile che ti si aggrappa al collo in una giornata di sole, ed instaura immediatamente un regno di oscurità nel tuo cuore; lo sguardo compassato di un medico che cerca le parole giuste; il fischio di un treno che si allontana; le oscurità oblique di uno specchio.
Senza neanche rendermene conto mi trovai in piedi alla finestra, il contatto freddo del vetro sotto il palmo delle mie mani.
La aprii, la tapparella era alzata per metà. Là fuori il vento spazzava stupidamente la strada, ma la sua forza non era apocalittica come l’avevo immaginata.
Sul davanzale c’era un piccolo corpo nudo, nero, lucido di umidità. Poteva ricordare vagamente una lontra, piccole mani unghiute abbarbicate al muro, occhietti intelligenti e spalancati nel buio della notte.
Il piccolo demone si rivolse a me sputandomi contro la sua voce esile, quasi cancellata dall’ululare del vento.
Tutto quello che rendeva la tua vita degna di essere vissuta finisce, ora e in questo momento. Sono qui per divorarti l’anima, sono qui per strapparti il cuore. Rovescerò il giorno con la notte e vivrai sotto il sole dell’estate l’oscurità delle piogge invernali. Ti sussurrerò disperazione e scontento mentre giaci a fianco del tuo amore. Guiderò la tua mano per vergare parole smarrite nel tuo diario. Sottrarrò i colori alla tua vita, riempirò di buio gli spazi tra i tuoi pensieri…
Mentre il demone così mi diceva, la sua voce si faceva sempre più flebile e affrettata, inframmezzata da leggeri singulti.
Guardai nei suoi occhi umidi, due piccole biglie di onice incastonate in una prugna di muso.
Vidi una vita tranquilla trascorsa a compiere un onesto da lavoro da demone, costruendo giorno dopo giorno un piccolo inferno domestico. Vidi il vecchio del quinto piano, rituali eterni, pigiama a righe e radiolina accesa fino a tarda notte. In dieci anni ci avevo scambiato sì e no quattro saluti, e da tempo non l’avevo più visto. Poi i ringraziamenti della famiglia, lasciati su un fogliettino bianco tra le sbarre del portone del palazzo. Una piccola morte invisibile e tranquilla.
Ti strapperò il cuore. Ucciderò le tue speranze. Dipingerò i tuoi incubi. Devo farlo, sai…
La voce del demone era quasi intollerabile, ora, così stridula e debole. Le minuscole mani graffiavano senza forze il vetro della finestra, aperta per metà. I suoi fianchi tremavano come quelli di un piccolo cagnetto al gelo dell’inverno.
Ancora una volta, l’ultima, vidi un’immagine sepolta nella profondità dei suoi occhi (mi sono poi convinto che la comunicazione tra demoni deve svolgersi così, tra sguardi, e le parole servano ad esprimere soltanto minuziosi rituali codificati a cui la popolazione infernale è costretta ad attenersi, da tempo immutabile, per volontà di Colui che perdona tutti, tranne i demoni).
Lo vidi aggrappato a quel pigiama a righe, al caldo di una stanza dalla luce soffusa, ascoltare il borbottio del latte riscaldato, e le voci della radio che infestano le stanze buie.
Lo vidi nascosto nel fondo di un armadio, tra vecchie fotografie ingiallite ed una scatola di bretelle, mentre gli estranei di famiglia trafficano nelle stanze, ed il corpo viene spogliato del pigiama a righe e portato via.
Aprii del tutto la finestra, permettendo ad una ventata astiosa di scompigliare i fogli sulla mia scrivania.
Le manine del demone si aprirono come le zampe di un geco, scivolando lungo il vetro ghiacciato.
Schiumante di rabbia e di brina, il vento aumentò la sua voce, facendomi fare un passo indietro, come ostacolato da una invisibile barriera.
Gli occhietti di onice si chiusero per un momento, abbagliati dalla luce della mia lampada notturna, e sembrarono ammiccare, persi in qualche piccolo ricordo da demone.
Poi le manine non fecero più presa ed il vento lo prese del tutto.
Vidi il piccolo corpo trasportato dal vento, che ora aveva perso parte della sua rabbia, e gemeva come un gigante addolorato.
Mi sembrò di scorgere una cosa nera e lucida rimbalzare su un cornicione, e poi perdersi del tutto nello spazio oscuro che circonda la Luna, più nero del nero, ma forse era solo un sacchetto di plastica per l’immondizia.
Chiusi la finestra e, come in una canzone di Dylan, poggiai la fronte sul vetro e mi misi a piangere.
Quel piccolo demone mi aveva strappato il cuore.
sabato 12 dicembre 2009
REGALO DI COMPLEANNO
Il miglior regalo di compleanno mai avuto. Ultimamente, quando sono preda dei dubbi e rimpianti che come personalissime Furie si divertono a sbranarmi il cuore, mi rileggo queste righe, e mi fanno stare meglio.
maschio, sì, maschio
mi fa strano chiamarlo così, una volta ho detto, per descriverlo, che è come un braccio, sì perché ormai è come un pezzo di me, e ci sentiamo e capiamo senza parlare. è buffo quando comunichiamo a grugniti o a gesti e gli altri ci guardano senza capire, ma è come sentire che il braccio (e il pezzetto di cervello correlato) sta al posto suo e ancora risponde
siamo anche la cartina al tornasole l'uno dell'altro (e fanculo parlo al maschile, tanto è più donna lui tra noi), solo che io sono la parte che si incazza e dice tutto come viene viene, lui è la parte che pensa e si tiene i suoi dubbi fino a stare male, piuttosto che fare male
lui è quello dolce, che se si muove rompe cristalli, io cerco di non rompere i cristalli e rompo tutto il resto
una bella accoppiata, è difficile restare sani standoci vicini
avevo paura di parlare al posto suo e lui mi ha tranquillizzata facendomi da specchio, come sempre, ha questa capacità di starti a sentire e parlarti senza giudicare mai, questo non l'ho mai imparato, ci provo ancora però
e mi ha detto che io sono chiara, non posso fare a meno di dire le cose come stanno (o comunque di farlo capire, aggiungo io, precisa fino alla nausea)
insomma avevo paura, ma alla fine ha parlato lui
poche parole (strano)
perfette
vere
eravamo tutti lì per lui
e questo fa capire quanto è
Il mio migliore amico
maschio, sì, maschio
mi fa strano chiamarlo così, una volta ho detto, per descriverlo, che è come un braccio, sì perché ormai è come un pezzo di me, e ci sentiamo e capiamo senza parlare. è buffo quando comunichiamo a grugniti o a gesti e gli altri ci guardano senza capire, ma è come sentire che il braccio (e il pezzetto di cervello correlato) sta al posto suo e ancora risponde
siamo anche la cartina al tornasole l'uno dell'altro (e fanculo parlo al maschile, tanto è più donna lui tra noi), solo che io sono la parte che si incazza e dice tutto come viene viene, lui è la parte che pensa e si tiene i suoi dubbi fino a stare male, piuttosto che fare male
lui è quello dolce, che se si muove rompe cristalli, io cerco di non rompere i cristalli e rompo tutto il resto
una bella accoppiata, è difficile restare sani standoci vicini
avevo paura di parlare al posto suo e lui mi ha tranquillizzata facendomi da specchio, come sempre, ha questa capacità di starti a sentire e parlarti senza giudicare mai, questo non l'ho mai imparato, ci provo ancora però
e mi ha detto che io sono chiara, non posso fare a meno di dire le cose come stanno (o comunque di farlo capire, aggiungo io, precisa fino alla nausea)
insomma avevo paura, ma alla fine ha parlato lui
poche parole (strano)
perfette
vere
eravamo tutti lì per lui
e questo fa capire quanto è
mercoledì 2 dicembre 2009
LA FAVOLA DI HASSAN
Qualche tempo fa, in queste contrade, vagava un giovane uomo di nome Hassan.
Quale strano animale sia un nome, miei invisibili amici, non è argomento di cui possa spiegarvi più di quanto già sapete, poiché una delle tradizioni più solide e condivise, in queste lande, è quella di scegliersi nomi ed addobbarseli addosso, in qualche modo.
Alcuni li sfoggiano, altri li portano gelosamente sotto il cappotto, altri li gettano sul tavolo, alla mercé del mondo, e li cambiano senza rimorsi una volta venuti a noia. E la notte si riempie di nomi ripudiati che s’aggirano in cerca di corpi innominati, e ululano alla Luna e piangono nelle paludi, poveri nomi senza corpo… ma questa è un’altra storia.
Dovrete avere pazienza, scantono spesso e mi perdo, come tutti quelli che volendo raccontare del mondo finiscono per descrivere il muricciolo di pietre colorate sull’uscio di casa.
C’era Hassan, dicevamo, un uomo con un nome.
Il giovane uomo non si era chiamato sempre così, questo nome gli era stato donato e imposto da una giovane strega dai capelli fulvi, o da un’affascinante succubo incontrato in sogno, la memoria lo confonde a riguardo.
Hassan, forte del suo nuovo nome e pungolato da uno sciame di sogni, partì dal suo villaggio.
Seguendo la strada tracciata dalle stelle (stelle che lui stesso aveva accuratamente posizionato nel proprio cielo), nelle notti solitarie, la schiena poggiata alla cavalcatura sonnolenta, immaginava gli onori e la gloria in cui, invariabilmente!, si sarebbe ben presto imbattuto.
Così, nelle lingue del fuoco del bivacco, vedeva cose.
Intravide una città dalle strade lastricate di nudità di schiave e schiavi, a sostenere i passi di padroni alteri e maghe oscure i quali, giunta la notte, a loro volta si denudano e prendono il posto dei loro servi, in un’altalena di dominanza che disorienta il viandante giunto lì per caso, alla vista di questi selciati viventi ribollenti di amori feroci e tenere lussurie.
Vide anche, oltre la città dalle strade viventi, una torre solitaria, sorvegliata da cani feroci (o da uomini con sembianze di cani, la visione era imperfetta). Una scala a chiocciola portava in cima, nell’unica stanza della Torre, dove una principessa dormiva un eterno sonno senza sogni, circondata da strane statue senzienti e mute, ognuna di esse effige di un antico salvatore che aveva sognato di conquistare il cuore gelido della fanciulla.
Hassan vide tante e tante cose, nelle fiamme di quel fuoco, e di tante cose si sarebbe potuto innamorare.
Ma, senza accorgersene, si innamorò invece del proprio nome.
Tutti sappiamo la peculiarità dei nomi, accozzaglia di lettere che, isolate, non potrebbero che ripetere a pappagallo il loro gutturale pensiero, ma che intrecciate tra loro creano un senso… e qualcos’altro.
Tutti sappiamo che i nomi sono magici.
Il nome di Hassan, nell’animo già esaltato dell’uomo, evocò immagini: oasi di riservate lussurie, nascoste da insospettabili palmizi; solitari e mistici uomini blu; donne dal volto velato ed i meravigliosi piedi nudi, arabescati di hennè, percorsi ad uso e gusto di lingue esploratrici; jiin ermafroditi racchiusi in lampade bronzee, pronti ad esaudire tre perversioni e possedere poi l’incauto fortunato; ed ancora nude e furbe sherezade, padrone dei loro padroni visir, sadici e patetici.
Ma, su tutte queste immagini, una. Il Deserto.
Questa misera storia si sta facendo già troppo lunga, e posso immaginare gli sguardi annoiati e gli inevitabili sospiri, così non starò a dibattere sulla natura del Deserto. Forse è uno stato della mente, forse è il Primo Luogo, da cui sono scaturiti come in un sogno tutti gli altri, o forse è solo una piatta e monotona distesa di sabbia.
Per Hassan il deserto fu la logica conseguenza dell’immagine che si era fatto di se stesso, in quelle notte solitarie a guardare il fuoco. Il deserto è il vuoto immenso che attira le anime che aspirano a vivere da giganti, e che in quella desolazione trovano conforto, poiché non è permesso alcun confronto.
E Hassan seguì le piste carovaniere del suo deserto interiore, ricoprendo intere pergamene di una grafia fitta e minuta, inventando oasi e città, perlustrando coste e scoprendo sorgenti nascoste.
Le strade di polvere a cui aveva appena dato un nome si confondevano dietro i suoi passi, scomparendo nella luminosa uniformità delle sabbie. Le fanciulle favoleggiate e lo irridevano al bordo del fuoco del bivacco, rivelando la loro illusoria natura di miraggi (e in quanto tali, più reali del vero! gridavano contente, trasparendo nell’aurora).
A conti fatti, gli unici compagni con cui divideva gli avanzi dei pasti frugali erano da sempre le lente lucertole azzurrine, che, acquattate ai suoi piedi, lo guardavano strizzando gli occhietti neri come il cosmo.
Un giorno, Hassan giunse ad un ridente villaggio, dove si teneva una fiera di mercanti. Per l’occasione le genti del Deserto si riunivano, e le strette stradine tra le basse case di arenaria e di calce si riempivano di risate, vesti colorate, grida e suoni di improbabili strumenti musicali.
Hassan s’aggirava per quei vicoli ingombri di varia umanità, solo a se stesso, come sempre, quando vide qualcosa che risvegliò il suo interesse.
La cosa giaceva tra altre, alla rinfusa, sul bancone di un mercante.
Hassan, affascinato, la comprò per un quarto di moneta d’argento.
La cosa non era altro che una bolla di vetro, al cui interno, sospesa in una soluzione oleosa, c’era della sabbia. Agitando la bolla, la sabbia si sollevava, per ricadere pigramente, simulando, nelle intenzioni dell’inventore, una tempesta del deserto in miniatura.
Un piccolo oggetto di dubbio gusto, banale e dimenticato tra tanti altri, giunto chissà come in quella contrada al limite della grande Solitudine riarsa dal Sole.
Ma Hassan vi aveva visto altro, che forse nessun altro oltre lui poteva vedere.
All’interno della bolla di vetro, Hassan vide le stesse piste di sabbia da lui percorse, e le stesse città da lui scoperte. Vide i miraggi di mari lontani e i profili delle montagne, gli stessi paesaggi che aveva intravisto nei suoi viaggi solitari, al finire del giorno, quando stanco ma assetato di nuove visioni spingeva lo sguardo contro le mura della notte.
E infine là dentro vide lui stesso, un minuscolo gigante a bordo del suo cammello che veleggiava solitario, nello spazio sconfinato di una bolla di vetro.
Rise, per celare la profonda nausea che provava di se stesso, quindi prese dalla bisaccia tutti i suoi appunti di viaggio e le mappe, fino a pochi istanti prima così preziose da giustificare una vita di eremitaggio, e le gettò lontano.
Le carte si aprirono nell’aria come uno stormo di uccelli felici, assaporando la libertà, e finirono sul selciato, tra i calzari della gente, nella sabbia.
Alcuni bambini però non si lasciarono sfuggire l’accaduto, e, incuriositi, sgattaiolarono tra le gambe dei passanti, recuperando tutte le carte in un nuovo gioco improvvisato.
La sabbia dorata s’era unita all’inchiostro ancora umido, e le righe di grafia si erano ora trasformate in un interminabile arabesco formato da un unico filo d’oro.
E Hassan, finalmente, comprese.
La linea che aveva cercato, il suo filo d’oro, non era là fuori, nel deserto della sua mente, ma lì di fronte ai suoi occhi, sulla pergamena che un ragazzino ridente gli stava porgendo.
La magia di un nome l’aveva portato ad isolarsi in un suo mondo di sogno, dove si sentiva un gigante.
Dopo un primo momento di rabbia, per aver sprecato tanti anni della sua vita, Hassan comprese che rifiutare quel nome, od incolparlo del suo isolamento, avrebbe avuto lo stesso valore del gesto del bambinetto che strappa dalla terra la pianta spinosa con cui si è punto il dito.
E così lo arricchì, completandolo, abbellendolo con il filo d’oro di un altro nome.
Rinnovato, sconfitto ma sereno, Hassan rinunciò ai romitaggi.
Salì le scale di un palazzo di pietra rossa, sorvegliato da un possente leone di bronzo, con l’unica intenzione di trovare un posto oscuro dove poter riposarsi per un po’, con un tetto sopra la sua testa. Lo sguardo delle stelle gli era venuto improvvisamente a noia.
Il palazzo era pieno di stanze, ed in ogni stanza c’era vita, persone che come lui avevano attraversato il deserto, pensando in cuor loro di essere gli unici ad aver preso questa decisione.
Il grande Deserto solitario brulicava di vita inconsapevole, ora Hassan lo poteva vedere chiaramente.
Nell’ultima stanza, con grande sorpresa, Hassan trovò la stessa maga dai capelli ramati che, secoli prima, gli aveva regalato il nome.
Lo stava aspettando da molto tempo, perché, disse lei, alla fine è qui che giungono tutti quelli che si chiamano Hassan.
Ora, nel villaggio ai confini del Deserto, si aggira un uomo di nome Hassan Fildor, che qualche volta sente spirare il vento freddo del Deserto, nel suo cuore.
In quelle sere si accosta al fuoco, nella grande sala della taverna, gli piace ascoltare, guardare negli occhi le persone, e a volte, a pochi, raccontare le storie del deserto. Ha dimenticato se sono vere o fantasia.
Intanto un bambino, nella strada, sotto le stelle polverose, gioca con una bolla di vetro.
Etichette:
racconti
Iscriviti a:
Post (Atom)