Passeggiando nella Villa mi stavo perdendo nel mio gioco abituale, quello di seguire con lo sguardo il percorso delle nuvole all’orizzonte, al di sopra della sommità degli alberi, e decifrarne le forme scovando rivelazioni e somiglianze: volti conosciuti, frammenti di nudità, donne, cavalli e serpenti, e tutte le immagini che la mente, frenetica, disegna sull’incolpevole amorfità del vapore acqueo.
Mi piace soprattutto il modo in cui, nel tempo di una ventata, le tracce che pensiamo di aver colto si sfaldano e si perdono, in una metamorfosi continua e leggera, felice semplicemente di essere e di non avere senso alcuno. Credo che la nostra immensa inadeguatezza nei confronti dell’Universo si senta giustificata, in tali frangenti, da questa spontanea e insensata creazione, come se lo stesso Universo volesse mettere in mostra la propria abilità con la stessa petulanza del bambino che ha bisogno di un pubblico di adulti per mostrare quanto è bravo a far qualcosa.
Fu per questo che la mia coscienza registrò solo con colpevole ritardo la stranezza della situazione. In un pregevole intervento lo scrittore Julio Cortazar ha tratteggiato nella maniera tipicamente visiva dei sudamericani l’elemento dell’eccezionalità nei racconti. Prendendo in prestito le sue parole: scoprire in una nuvola il profilo di Beethoven sarebbe solamente inquietante se questo durasse una decina di secondi in più prima di smagliarsi in altre forme, ma se questo profilo permanesse fermo nel cielo, contornato da altre nuvole in eterno mutamento, allora ecco guizzare l’elemento del fantastico, o dell’orrore.
Non ci furono volti o animali favolosi, e nemmeno giganteschi occhi o diavoli alati, forse fu per questo che continuai a camminare normalmente, anche se ormai stavo già da qualche secondo fissando la linea frastagliata che si innalzava oltre gli alberi.
Gli sguardi sbalorditi di altri passeggianti e alcune esclamazioni trattenute mi costrinsero a fermarmi, e guardare.
Spesso, tra le immagini nelle nubi, avevo visto città arroccate su colline, e mi ero permesso di immaginare popoli vivere in quelle lontananze aeree, e signorotti delle altitudini scrutare tra i merli delle loro rocche di cumulonembi il mondo scorrere sotto di loro, lontano e inarrivabile, guardando perplessi le costellazioni notturne delle grandi città, in una sorta di cielo capovolto. Mai però avevo pensato che quelle città potessero prendere una forma, come quella che ora vedevo di fronte a me.
L’orizzonte consueto oltre la Villa, fatto dalla rassicurante linea di palazzi della città, interrotta solo dalla placida rotondità della cupola seicentesca, era stato stravolto, occupato da una montagna violacea, remotissima e assurdamente colossale. Il paesaggio si era mutato in una nuova forma, le nuvole erano diventate creste rocciose e monti, ricoperti da foreste e attraversati da fiumi e forse popolati da diverse creature, umane e animali.
Rimanemmo lì il tempo necessario perché la nostra consapevolezza accettasse quella strana visione, e poi cominciammo a scorgere lo sfilacciarsi delle vette, la montagna ridiventava lentamente nuvola, e stava tornando al suo cielo.
Da allora, dall’apparizione delle nuvole montagne, ho lasciato la mia vecchia professione e sono diventato un cartografo.
Non esco più per le mie lunghe passeggiate, preferisco passare il mio tempo in uno scantinato polveroso, dove altri cartografi come me disegnano su lunghi tavoli le nuove mappe.
Non dobbiamo misurare, o valutare o confrontare, niente di tutto questo. Il metodo scientifico è il nemico principale di un cartografo di nuvole, dal momento che nulla è ripetibile nella conformazione della nuova geografia aerea che attraversa i cieli del mondo.
Ogni mattina immaginiamo paesaggi e diamo a queste visioni una forma, disegnandole su nuove pergamene, sicuri che qualcuno dei nostri disegni coinciderà con qualche capriccio nembiforme, presente o futuro.
Siamo guidati dall’intuizione, dislocando città e villaggi, e possiamo quasi sentire sotto le nostre dita sporche di grafite il brulicare di quelle lontane genti, la monotonia di piccole vite inconcepibili.
Il mondo attuale si serve di noi per ritrovare un senso nella consuetudine di questa assurdità, ed ha inventato per noi un lavoro tedioso e assurdo, che siamo i primi a non capire, solo a svolgere.
Ma non me ne lamento, è diventato il mio lavoro, in fondo.
Mi dispiace solo che, da allora, non sono più riuscito a guardare il cielo. Mi limito a perdermi assorto nelle minuscole pieghe della carta ingiallita, decifrando possibili forme e disegnandole perché, mi dicono, l’unico modo per conoscere il cielo è quello di ignorarlo.
giovedì 4 marzo 2010
COME DIVENTAI UN CARTOGRAFO
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racconti
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