Da un po’ di tempo a questa parte – quantificarlo non so perché i mesi e i giorni per me assumono i mutevoli contorni del Tempo del Sogno degli aborigeni australiani – non riesco a scrivere una riga che sia una, su questi Taccuini. Non sto facendo molto anche altrove, ma non ha importanza, ai fini di questo racconto. I personaggi esistono all’interno del loro universo conchiuso della narrazione, e ciò che sborda è superfluo. Il Narratore in realtà è il primo personaggio, ma la sua vita è un qualcosa di assolutamente trascurabile, come vederlo lavarsi la faccia la mattina, o allacciarsi le scarpe prima di una scena clou. Chi ha voglia di vederlo fare cose del genere?
Comunque.
La mia momentanea riluttanza a vergare parole sullo schermo (o meglio la riluttanza del personaggio Hassan, che non esiste, sapete) non ha alcuna rilevanza, se non per quelle due o tre persone che, per amicizia, lungimiranza o intimo masochismo si dilettano a leggere le cose che mi piace scrivere, a volte.
Addentrarsi nelle pieghe dell’Inconscio, mal stirate da anni di introspezione personale e altrui, è un esercizio che ormai mi è venuto a noia. Come masturbarsi con la mano destra per una vita intera e improvvisamente subire la tentazione della Via della Mano Sinistra, e procrastinare il passaggio di consegne raccontandosi la storia di una necessaria preparazione (perché è grande l’Autoinganno sotto il cielo) ed in realtà rimanere felice e scontento a sguazzare nella propria pozza, giochicchiando con le paperelle dei buoni proponimenti.
Che Hassan si martorizzi, anche questa, è una cosa di poca rilevanza, che oltretutto potrebbe anche divertirmi (poiché l’esistenza di Hassan è molto relativa, ripeto per i disattenti); ma che i mondi e le creature che a volte sgambettavano fuori dai suoi scritti, non certo per una sua presunta abilità di creatore quanto per la sua indubbia qualifica di “usciere”, che questi Odradek agghindati della stoffa di cui sono fatti i sogni, dicevo, debbano scontare la bovina ottusità del loro cosiddetto “autore”, è cosa che mi scuote i nervi e mi spinge a minacciare col pugno il cielo nuvoloso di questa landa inconscia dalla quale vi scrivo.
Non credo al (povero) Diavolo tentatore perché se esistesse non potrebbe certo rivaleggiare con l’abilità con la quale siamo capaci di ingannare noi stessi. Mi raccontavo di esser stanco dei Taccuini in genere e dello strano riscontro che mi tornava indietro, prodigo di lusinghe certo, ma anche sottilmente raggelante, come un riflesso istupidito del mio viso su una lastra di ghiaccio, a ricordarmi vite congelate e non vissute, racchiuse nella prigione delle righe.
Per questo mi ero stancato di diavoletti trasportati dal vento, e ninfe ladre di amore, e cartografi di nuvole e sex symbol nane e mutanti. Che senso potevano avere? Era valso davvero il sacrificio di bruciare sul loro altare decenni di normalità, in vista di chissà quale isola non trovata? In quale misura hanno cambiato o potranno cambiare il mondo, o per meglio dire i mondi, quello degli sporadici fruitori e il mio; loro primo annoiato lettore?
Ignaro di aver preso una vera decisione, avevo chiuso loro la porta, dedicando l’esercizio della fantasia al mero lavoro dello sceneggiatore di fumetti misconosciuto. Poesia, se mai ne fu, è stata esiliata dai confini del regno.
E come accade, quando si sbarrano i portoni la casa viene percorsa da un formicolare di voci, e si aprono altri usci, chè il palazzo è grande e pieno di cunicoli. E da una porta alle mie spalle è entrata la Realtà.
L’allestimento della scena sembra quello di un giovane scenografo, un po’ inesperto ma molto volenteroso. La luce filtra dai vetri del pub, calda e arancione. I tavolini radunano piccole oasi di chiacchiericcio, in gran parte in lingue straniere, e infusi e birre si alternano senza pretese di superiorità, in una spontanea democrazia vivandiera che placa le normali turbolenze dello spirito.
No, difficile che in un posto come questo nasca una tormentata poesia di amore e morte. È più facile, come faccio, perdersi in una breve contemplazione di un bel volto ad un altro tavolo, gli occhi aggrottati dietro lenti leggere che esaminano pagine e pagine di un lavoro, di un’importanza, mi vien da pensare, vitale. Non me ne vogliono - pur se non credo se n’accorgano chè tanto ho affinato l’arte di rubar immagini che le mie sortite d’occhi sono fugaci come, è il caso di dirlo!, battiti di ciglia – le amiche sedute al mio tavolo, perché la visione dei loro volti mi è nota ma altrettanto gradita. Ma è risaputo come è più attraente l’idea di navigar in mari sconosciuti, anche se l’atto è solo il sognar di farlo, al sicuro nel porto, con la testa poggiata sul sartiame.
Ma non perdiamoci in paesaggi marini e torniamo al pub.
Immancabili, “ecco che spuntano i Tarocchi”, come dice le canzone, anche se ci si risparmia volentieri “le frescate su Calvino”. Sulla bella superficie di legno chiaro, popolata dai fantasmi di milioni di sottobicchieri, si dispiega la familiare danza dei miei amici medioevali, tanto più enigmatici quanto più sembra, in fortunati momenti, vogliano abbozzare lo scherno di una rivelazione.
Anche di loro mi ero annoiato, di tutti loro tranne che di uno forse, il più temibile e incompreso, spoglio di tutto e in primis del proprio nome.
Sono testimone di quanto queste piccole figurine di cartone, grossolane nel disegno e anacronistiche nel contenuto, riescano ad attirare con forza l’inarrestabile stormire della cosiddetta modernità. Non so dire se per spregio, attrazione o per semplice curiosità, ma attesto che raramente capiti che uno sguardo scivoli su di loro senza che di rimando si attizzi qualche angolo del braciere nascosto nell’animo, una piccola fiammella magari, ma tanto luminosa, quando intorno è buio.
Anche stavolta, la richiesta.
Leggere i Tarocchi è per me una piccola forma di sofferenza, sempre. Mettersi adesso a disquisire quanto questa afflizione sia anche legata ad un piacere, narcisistico o meno, lo troverei perlomeno pleonastico, dal momento che, chi più chi meno, siamo tutti convitati a questo consesso dove piacere e dolore sono maschere della stessa misteriosa e timida Regina.
Spinto da deliziosi demoni femminili – perché penso nulla tenterei nella mia vita senza queste forze, e mi vivrei una solitaria e saggia esistenza da sabbioso giardino zen – mi sono prestato al ruolo del Mago.
Sia detto per ischerzo, signori, vi prego. Preferisco, facendomi troppo ridere la parola “tarologo”, la dicitura di Narratore. Maiuscola o meno, a seconda della vostra simpatia.
Si è seduto di fronte a me il giovane uomo che poco prima ci aveva portato infusi e caffè, un bel ragazzo con la barba, con sguardo aperto e intelligente. Fatico per un attimo alla tentazione di alzare il cappuccio della felpa nera che indosso, per giocare alla figura del mago tenebroso.
Ma la mia testa non è nuda: è coperta, invisibile a tutti, dal cappello sgargiante del ciarlatano.
Ogni volta secoli di ragionamento cartesiano mi stringono il cuore, mentre porgo le carte e riporto le parole del mio buffo mentore (ciarlatano anch’esso, ma divino): “Crea il tuo Caos”. Create your chaos. Potrebbe essere una buona catch phrase per un brand da tirare fuori in un brainstorming ad un meeting. Yes. Ok.
È come camminare sul filo sospesi nel vuoto, e aspettarsi l’impatto con la “vera” realtà, augurarselo quasi. “Guarda, sono tutte stronzate, quello che mi dici non corrisponde a niente.”
E ogni volta, abbandonare queste remore ammirando il dispiegarsi della loro danza, di questi piccoli esserini di carta che da secoli ci deridono, depositari di segreti che fanno solo finta di rivelarci.
A volte è una Totentanz, quando a guidare la quadriglia c’è la falce della nera signora (che nel mio mazzo è invece rosa, come il desiderio), altre volte, come in questa, c’è il Matto.
Come sempre, lascio che la collana dei miei pensieri perda una ad una le sue perle false, e mi immergo nella narrazione di ciò che vedo.
Una bellissima Imperatrice, il suo sposo, l’Imperatore… e poi due saggi consiglieri che come Giano guardano passato e futuro, al riparo dei più alti bastioni dell’Ego e dai cunicoli ricchi di humus e di tesori dei sotterranei dell’Inconscio. E parlo, e dico sciocchezze, e come sempre racconto una storia, che questo è il mio compito, lo è sempre stato, e lo sarà.
L’uomo sorride e sobbalza, ogni tanto, nella gestualità di un bambino intimidito ma fiducioso.
Poi, quando termino, ecco la sua storia e il motivo per cui mi trovo lì.
Dice che non crede alle coincidenze, dice che se noi eravamo lì in quel momento era perché così doveva essere.
E ci parla, in un italiano molto migliore del mio, della sua infanzia in Venezuela, del suo approdare in questa isola – e non più penisola – chiamata italia (nessun refuso) e vederla cambiare negli anni, al di fuori del cerchio di calore del suo pub. Percepire le anime farsi dure e secche, come pelli di serpente abbandonate. Ogni tanto si scusa di parlare in questa maniera a noi italiani, e a immediata risposta quattro teste annuiscono, confermando l’abdicazione di ogni difesa d’ufficio nazionalistica, atteggiamento che, a mio modo di vedere, ogni persona di buon senso ha abbandonato ormai da anni.
Mi racconta la storia e la sua storia ripercorre le figure degli Arcani sul tavolo. Ed ecco che dalla Realtà, che ormai ha preso le pieghe di un sogno vivido, esce fuori una ragazza spagnola, hostess di professione. Appare veramente, dal vivo, e si ferma al nostro tavolo di magie.
Mi alzo e le stringo la mano, è veramente bellissima e mi sento emozionato a conoscere l’Imperatrice, che contemporaneamente, sorride, distesa languidamente sul Tavolo. Accanto a lei, il suo Imperatore – che in questo momento è anche il nostro – le riassume brevemente la mia lettura in spagnolo, e mi piace cogliere tra i sussurri un “mi amor”. Anche lui campeggia dalle carte, doppio del suo corrispettivo nella realtà.
Il racconto dell’Imperatore si dipana nel progetto futuro, protetto dalle ali della Temperanza. Ha venduto da pochi giorni le quote del pub e se ne volerà a vivere in Namibia, dove, parole sue, “non c’è cortina tra te e gli altri, e la vita è ancora vita”. Ed ancora, non me ne vogliano i nazionalisti, “non voglio che mio figlio nasca in questo paese.” Dal tavolo occhieggia il Matto, la chiave, che sorride sghembo al salto nel vuoto dei due amanti regali, rassicurando che tutto andrà bene, perché la vita, per chi la sa vedere, è intrisa di magia.
Ci salutiamo e mi offre una birra. È la birra più buona che abbia mai bevuto, e non dimentico di condividerla con i miei amici. Tutti sappiamo, anche se non ce lo diciamo per questa paura di essere ridicoli nei confronti di una modernità orribilmente ridicola di suo, che la birra è il pagamento dell’oracolo, un rito antico ed eterno, attuale come non mai.
Poi c’è altro, ma sarebbe cronaca e non storia. Se qualcuno pensa che sia stato io a leggere i Tarocchi al giovane uomo (Ricardo, se vogliamo dargli un nome), allora sbaglia, o almeno vede solo la parte recitata dalle comparse. Lui ha letto a me la sua storia. E mi ha riportato sul mio sentiero, pungolandomi alle terga come il cagnetto del Matto. Non posso altro che essere il Narratore, ed ogni buon Narratore è al servizio delle sue storie. Non può utilizzare le visioni per stupire, o farsi bello o fare i soldi. Il Narratore non può far altro che narrare, e non domandare altro, se non agli uccelli del cielo, o ai gigli dei campi. Interlocutori più istruttivi dei manuali di sceneggiatura.
E semplicemente narrando, con indosso il cappello del ciarlatano e giocando a fare il matto, il bagatto del mercato, il truffatore delle tre carte, quest’uomo senza arte né parte, proprio questo uomo, diventa Mago.
Questa è la storia di come il Mondo mi abbia voluto raccontare una storia. Meglio non lo so spiegare.
La taverna è buia ma la luce che filtra dalle feritoie a livello della strada taglia l’oscurità con lame polverose di luce. Un raggio, nel quale nuotano moscerini e piccole falene, cade proprio sul mio tavolo, illuminando il ventaglio di carte consunte, in attesa.
Lo vedo avvicinare, scortato dalle guardie impaludate in lunghi mantelli. Volutamente, lasciano trapelare dalla stoffa la visione delle spade.
Come d’abitudine, mi copro il capo col mantello, e mi fondo con le ombre, uomo delle ombre, come mi chiamò una volta un uomo di Bisanzio.
“Felpa”. Questa strana parola affiora alla mia coscienza come il pezzetto ignoto di carne galleggiante nella brodaglia che ho appena mangiato. Da qualche tempo a questa parte mi vengono in mente parole “nuove”, strane. Non le percepisco come deliri della mente, più come presagi. Sento che un giorno, verranno usate.
Si siede circondato dalle guardie, e leggo il futuro a colui che tiene il Mondo nelle mani.
Un Impero cadrà ed un altro salirà dalle sue ceneri, come sempre è stato.
E nei secoli, lo so, perpetuerò l’inganno del Narratore, la gente mi cercherà per ascoltare storie, ma saranno loro a raccontarmele.
Che piacevole lettura!
RispondiElimina..sei decisamente nato Narratore, questo è certo!
(-: Claudio :-)