A quattro anni di distanza dallo straordinario Calvaire, Fabrice Du Welz torna a realizzare qualcosa di sicuramente conturbante e interessante, ma spiazzando tutti quelli che si aspettavano una prosecuzione della sua opera prima.
Non ci sono mostri, né zombie, né vampiri né psicopatici assassini (forse qualche fantasma, ma non è chiaro), ma solo il volto oscuro di una Natura ostile e incomprensibile, in cui gli uomini hanno la stessa valenza di un ramoscello, o di una zolla di terra fangosa, ed è forse una concezione di orrore ancora più spaventosa.
Burma, una coppia compie un viaggio della disperazione nei villaggi miserabili e sperduti nell’insperato tentativo di ritrovare il figlioletto perso nello Tsunami del 2004. Li accompagna un viscido boss della zona, a metà tra il santone ed il gangster, con l’evidente scopo di spennarli. Il viaggio si concluderà nel “cuore di tenebra” della foresta, nella progressiva distruzione psichica di entrambi e la conseguente “metamorfosi” di uno dei due.
Film difficile e “pesante”, in molti sensi, a cominciare dai titoli di testa quasi insostenibili (una semplice inquadratura di milioni di bollicine nell’acqua che man mano diventano rosse, e migliaia di urla che si levano per un paio di lunghissimi minuti).
L’inizio è dinamico, un’immersione multisensoriale nella realtà di una moderna città orientale, tra prostitute minorenni e ogni genere di locali, inferno sulla Terra e specchio dell’inferno personale dei protagonisti.
Poi, man mano che i due si addentrano nell’interno del paese, entrando in villaggi miserabili e infangati, le azioni rallentano, la distanza emotiva tra i due aumenta fino a farsi irrimediabile, visioni ripetitive affollano i loro sogni (ma sono sogni?) guidandoli sempre più verso il disastro.
I rimandi alla Natura melmosa, viscida, inspiegabile e profondamente ostile di Apocalypse Now sono evidenti, i protagonisti da un certo punto in poi abbandonano qualsiasi tipo di reazione: lei (una splendida e intensa Emmanuelle Béart) persa nei meandri della sua pazzia, lui paralizzato in un’apatia che non gli permette né di ostacolare l’evidente autodistruzione della moglie, né di abbandonarsi ad essa. Questa sorta di limbo emozionale rende i protagonisti spesso irritanti, non si capisce perché non lottino per contrastare gli eventi. Forse la risposta è che entrambi sono irrimediabilmente perduti sin dall’inizio, e non fanno altro che compiere il destino che hanno già scritto, nella loro resa spirituale, con la morte del figlio Joshua.
Se poi quest’ultimo sia o meno un Vinyan, ovvero un Anima Errante, lo lascio scoprire a chi vorrà vedersi questo strano film.
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