Displasia ectodermica. Un modo asettico per definire una piccola galassia di alterità cellulari, qualcosa che non è proprio malattia ma una condizione di esistenza. Anomalie strutturali genetiche, anomalie che sono persone, con i loro sogni, ansie e paure ed il loro percorso umano.
Questo non vuole essere l’ennesimo peana di mitologia yankee su “chi alla fine ce l’ha fatta”, un Rocky Balboa in versione handicap, perché nello specifico la meta è quanto di più effimero offra la nostra società alla bulimia dell’Homo Videns. Ed è proprio la natura di questo sogno ad affascinarmi, e di conseguenza non posso che essere soddisfatto della sua realizzazione.
Melanie Gaydos è una modella, probabilmente ha sempre voluto esserlo, fin da piccolina. Non è stata scelta in una festa alla cocaina dal fashion guru di passaggio, in cerca di freaks (“Mio Dioooooo, sei diviiiina, tesoro!”.) Dalla provincia americana si è mossa da sola, ostinata e lucidissima nella sua follia. Consapevole del proprio aspetto, consapevole delle difficoltà e del fatto che quel mondo che così ama probabilmente MAI l’accetterà del tutto, considerandola tutto al più una interessante “anomalia”, in grado di far rifulgere ancora di più la gloria di plastica delle sue eroine. Eppure è lì, una piccola e splendida stella di oscurità, un segno quasi subliminale che qualcos’altro è possibile, se non qui, in universo prossimo, invisibile ma a noi confinante.
Pacifica terrorista del corpo, al di là delle sue intenzioni, Melanie si offre nuda alle bocche delle macchine fotografiche appagando la nostra fame di “monstrum”, vorace di creature da “mostrare” che ribadiscano la nostra vacillante normalità, e che nell’altro verso tracciano anche l’optimum inarrivabile, l’esempio delle Afrodite e Apolli, mostri di perfezione che segnano il confine, relegandoci nell’acquitrino degli “esseri normali”, condannati al naturale decadimento fisico tra appariscenza e orrore, da cui siamo in modo identico attratti e respinti.
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